Quel pomeriggio di qualche giorno dopo tornai a casa prima del solito. Non mi ricordo esattamente come mai. Sapevo solo che avevo una montagna di cose da fare a casa. Principalmente lavatrici e ferro da stiro: colpa di Marisol, che si era data malata il giorno prima. Francesco intanto avrebbe passato il dopo scuola a casa di un amichetto a fare i compiti. Maurizio invece sarebbe andato a prenderlo più tardi.
Era dunque metà pomeriggio pieno, faceva caldo. Ero stanca, ma mentalmente in forze: sapevo che doveva ancora iniziare un pomeriggio di intenso lavoro domestico, e questo stranamente mi motivava. Appena rientrata, mi misi un vestito comodo e le ciabatte da casa ai piedi. Presi la cesta dei panni sporchi dalla nostra cabina armadio, poi quella di nostro figlio. Le appoggiai accanto alla vasca in bagno. Quando mi tirai su, dopo aver lasciato a terra l’ultima, di Francesco, mi massaggiai la schiena. Evidentemente era più pesante del solito, i muscoli non erano ben preparati e la postura non era quella corretta, che ti insegnano quando ti decidi a fare un po’ di ginnastica posturale.
Continuai per un attimo a contemplare la mia schiena con i polpastrelli. E mentre con la mano destra mi massaggiavo i lombari, guardavo in basso. Già, proprio lì, in basso… Misi a fuoco: c’era qualcosa, qualcosa di insolito, sul fondo bianco laccato della vasca, davanti a me.
Deglutii. Provai anche a pronunciare delle sillabe, ma il mio gesto fu più rapido della lingua. Al diavolo la schiena. Mi buttai immediatamente per terra sul bordo della vasca e allungai una mano a prendere ciò che avevo visto. Era lungo, più lungo dei miei. E di colore più chiaro, castano, quasi biondo. Lo tirai su. Poi lo vidi in controluce, davanti al bagliore che arrivava dalla finestra alla mia sinistra.
No, quel capello non apparteneva a questa casa.
Subito dopo, un flash. Di una telefonata da parte di mio marito, un paio d’ore dopo che ero uscita di casa stamattina. Mi informava che sarebbe andato più tardi al lavoro, perché prima aveva un appuntamento da alcuni clienti. In più, voleva sapere come stavo, cosa avrei fatto durante il giorno, che impegni avevo.
«Esco un po’ prima», gli avevo detto.
«Quando?».
«Penso di essere a casa verso le quattro».
Guardai ancora il capello. Il cuore aveva cominciato a battermi forte. Ormai ero certa: anch’io ero incappata nella trappola dell’uomo maledetto. Sì, anche io, proprio come Marika. Allora mi travolse un’immagine, quasi in slow-motion, di questa fantomatica donna dai capelli biondicci mentre si faceva la doccia nella mia vasca, nuda, con lui accanto… Sì proprio con lui accanto, come deve essere in questi casi di amore clandestino.
Continuavo a fissare il capello. Qualcosa dovevo fare. Qualcosa doveva accadere subito!
Già, subito…
Apro gli occhi immediatamente dopo. Mi agito nel letto come se volessi liberarmi da una trappola, il cuore segue il ritmo che aveva il sogno. La bocca è secca, appiccicosa. Dentro c’è ancora il sapore del cibo consumato al banchetto del matrimonio. Forse ho esagerato, forse mi sono lasciata andare più del dovuto, soprattutto con l’antipasto. Mi passo la mano sulla fronte: nonostante l’aria condizionata, la sento bagnata. So però come fare in queste circostanze. Cerco subito di riprendere coscienza di me stessa: mi ricordo, mentalmente, chi e dove sono. Cosa sto facendo. E mi dico che, appunto, era solo un incubo.
Guardo a sinistra: lui è lì. Maurizio respira tranquillo nel sonno. E non c’è nessun’altra, nessun capello.
Lentamente esco dal letto, in cerca d’acqua. Nel corridoio mi avvicino alla stanza di Francesco, la porta è accostata. Dorme anche lui. Arrivo in cucina, riempio un bicchiere, prendo un sorso. Il frigorifero in quel momento comincia a fare il solito ronzio meccanico che generalmente si avverte solo di notte. Ho il respiro ancora un po’ in affanno, provo una certa ansia che sento arrampicarsi su per il corpo. Poi penso a Marika, che stamattina piangeva perché il marito la tradiva, apparentemente alla luce del sole. Non siamo più tornate a trattare l’argomento, ma le ho promesso che, se avesse avuto bisogno, ci saremmo incontrate per farlo. Anche solo per permetterle di sfogarsi.
Rientro nel letto, faccio attenzione a non svegliare mio marito mentre scivolo sotto le lenzuola.
Sono le 2 di notte, guardo il soffitto. È una lastra scura, sembra un buco nero in mezzo all’universo. Mi giro dall’altra parte, chiudo gli occhi. Mi mordo le labbra.
Per un attimo ho vissuto una vita parallela in cui i giochi finalmente si erano risolti.