Mi ricordo che faceva caldo. Erano le 18.30 circa.
il solito traffico di Roma a quell’ora.
Mia madre aveva provato ad accompagnare me e mio padre (tra i pochi uomini in Italia sprovvisti di patente) il più lontano possibile, ma dopo poco si accorse che i freni dell’A112 erano usurati, e incolonnandosi in una strada in salita si era aiutata col freno a mano.
Io e mio padre ci spaventammo un poco, e poi scendemmo per prendere un autobus.
Mi ricordo poco altro del tragitto.
Poi solo tanta gente. E lo stadio nuovo. E i seggiolini azzurri dei distinti sud dell’Olimpico (ma anche di altri 80.000 posti).
Erano gli ottavi, l’Italia era ovviamente in azzurro e l’Uruguay ovviamente in celeste.
L’esultanza, quella grossa, non arrivò al primo gol di Schillaci, una bordata a sorpresa dal limite dell’area. L’esultanza, quella vera appunto, arrivò al momento del colpo di testa di Serena, verso la fine della partita.
2-0!
In quell’attimo mio padre, un tifoso che ho sempre conosciuto come vero è mite galantuomo, afferrò la bandiera che tenevo per mano e cominciò a gridare e saltare con entrambe le braccia in aria.
Io, ero rimasto attaccato alla bandiera. E mi ero ritrovato in aria anch’io, all’improvviso, mentre mio padre continuava a esultare.
Belli, i mondiali del’90.
Belli tutti, i mondiali. Ma quest’anno ancora non mi sembra che siano iniziati.
E forse non inizieranno mai.