Per l’ennesima volta sono tornato a casa da Termini a piedi. E li ho contati: circa 5 chilometri. Il mio sport semi-quotidiano che mi aiuta a non diventare un dirigibile per tutti i grassi che assimilo in cucina, un dolce dopo l’altro.
E camminare non fa altro che farmi pensare, riflettere.
Oggi mi sono confrontato con una collega riguardo quanto possa essere pericoloso un contratto a tempo indeterminato. La tomba della creatività, dell’intraprendenza, del rischio, del tirar fuori qualcosa per sé.
E tutto questo parte da un assunto: che quello che fai, nel posto dove sei, non ti completa. Altrimenti tutta la creatività la metteresti dove sei, dove lavori. A meno che, mese dopo mese, anno dopo anno, il tempo non ti logori, insieme a un contesto che, anche lui, si può logorare e portarti dentro il suo buco nero.
Ecco perché la guardia va sempre tenuta alta.
Fino a pensare, appunto, a quanto si farebbe qualora un domani qualcuno ti mettesse alla porta perché, “mi spiace, ma il suo contratto è terminato”. O a quanto si sarebbe in grado di fare.
E chissà che vita sarebbe, un po’ per rabbia di dimostrare quello che si vale, un po’ per mostrare a chiunque che sì, si è in grado di scegliere e di saper fare.
Ma quanto bisogna aspettare, quando invece c’è una specie di “assicurazione per la vita” chiamata contratto a tempo indeterminato che grava sulla testa, e allo stesso tempo quel famoso “contesto” pungola ai fianchi?
Non saprei.
Forse il tempo che si è capaci ad attendere. E ovviamente a voler cercare la via (d’uscita).