C’è un quartiere a Roma dove mi sento piccolo. Un infinitesimo di qualcosa che mi schiaccia.
Sarà per la sua architettura. Sarà per le colonne, per le ombre, per i portoni di ingresso che ricordano tanto i mastodontici libri di Tolkien. Anche per il silenzio, e le distanze.
Sei dentro a una città che ti sovrasta, che vuole imperare, dirti che la vita è bianco o nero, con me o contro di me, e che solo la geometria può darle quel po’ di leggerezza che i blocchi di marmo le privano. L’Eur, a Roma, è così.
Mai andarci quando c’è il sole forte. Perché sbatte sul bianco che, ovunque, fa di quel quartiere un quartiere fatto di chiazze e di asfalto, di palazzi e di scheletri, di acqua e di piante.
In certi angoli dell’Eur ci si sente dei puntini. Uno dei tanti. E ti viene quasi da appoggiarti a una delle innumerevoli colonne che a un tratto ti ritrovi di fianco. Dovrebbe essere una lettura moderna dell’architettura romana, di quella che risale all’impero che ha conquistato mezzo mondo. La verità è che hanno saputo creare gli spazi, gli architetti del fascismo.
Ma non per accorciare le distanze.
Il quartiere, non lo nego, è di certo impattante. Ma rimani appunto un puntino in mezzo a tanta ostentazione. Mentre quando sei davanti al Colosseo (quello vero) respiri un certo senso di autorevolezza.
Boh, non so.