Mio fratello Angelo, di cui ancora non vi ho parlato, sbaglia sempre i tempi. E forse è questo il motivo per cui non ve ne ho mai parlato. Ha 5 anni meno di me, vive ad Aosta, è ingegnere ed è sposato con una valdostana. E quando si tratta di essere precisi, puntuali come solo un ingegnere saprebbe fare, lui diventa invece come un libero professionista che dipinge quadri ai tramonti. O alle albe. Insomma, quando ne ha voglia.
E adesso mi tocca infatti interrompere la conversazione con Manuel, mentre ce ne stavamo tranquilli nel terrazzo dell’ospedale, proprio perché arriva la sua chiamata. Non un attimo prima quando stavo dentro la stanza con mamma e papà, o un attimo dopo quando ci sarei tornata. Allora sbuffo fuori il fumo della sigaretta, faccio un cenno a Manuel, che me l’aveva appena offerta, e mi allontano. Angelo vuole sapere come sta papà, se l’intervento è andato bene. E perché non abbiamo chiamato prima.
«Ti ho mandato un messaggio», mento. «Non ti è arrivato?».
«No… Diletta, ma hai ricominciato a fumare?», aggiunge lui senza perdere l’attimo. Evidentemente aveva percepito qualche mugugno della bocca mentre aspiravo.
«No… solo una, per dissolvere la tensione accumulata in queste ore».
Io e mio fratello ci diciamo poche parole in più.
«È il caso che venga subito, o posso arrivare fra una settimana, per l’inizio delle mie ferie?».
«Ci sono io qua» lo tranquillizzo. Gli prometto poi che l’avrei chiamato in serata. Subito dopo torno accanto a Manuel, che nel frattempo ha finito la sua, di sigaretta. A me rimangono solo un paio di tiri.
Lui è preoccupato. E triste. Poco fa mi ha spiegato la loro storia. Suo padre è italiano, ma è emigrato insieme a sua moglie 40 anni fa in Spagna, a Saragozza, per cambiare vita. E per mantenersi nel suo nuovo paese ha iniziato prima come cameriere, poi ha imparato a cucinare. Infine, si è aperto un piccolo ristorante italiano nel quartiere del Tubo.
La madre di Manuel è morta 5 anni fa a seguito di una brutta polmonite. Lui, figlio unico, è rimasto ad aiutare il padre nel ristorante, sebbene avesse voluto fare altro nella vita.
«Mi sarebbe piaciuto lavorare in azienda. Sai, giacca e cravatta, la 24ore tenuta in mano, a fare il manager, a decidere strategie di mercato, a investire… e invece la mia vita corre appresso a quello che mi viene regalato».
Ci conosciamo da pochissimo ma, forse perché qui non può parlare con nessun altro, lo fa con me. Pur essendo nato in Spagna si esprime con un perfetto italiano, visto che sua madre lo ha obbligato fin da piccolo a parlare la nostra lingua. Ogni tanto lo osservo. Ha una carnagione olivastra e muscoli con cui potrebbe alzare pesi per 100 chili.
«E non puoi fare strategie per il vostro ristorante?» gli domando a quel punto.
«Ci abbiamo pensato, ma credo che la dimensione familiare sia quella che conta. Il guadagno non sarà mai maggiore di ciò che riusciamo a fare adesso, ma sappiamo anche che rimarrà costante. E poi…» scuote la testa facendo un sospiro. Si appoggia quindi al davanzale del terrazzo e guarda avanti. Il suo viso non nasconde la fatica e la tensione di questi giorni.
Il padre è stato operato di tumore al fegato. È avvenuto tutto così in fretta, erano arrivati in Italia da neanche una settimana. Ma, fin dal loro arrivo, suo padre vomitava ogni giorno. Un pizzico di fortuna, però, era stata dalla loro parte: pareva che non ci fossero metastasi nate dalla malattia, ma dovevano attendere per sapere se il corpo avrebbe rigettato l’intervento. E al momento, per questioni organizzative dell’ospedale, suo padre era stato parcheggiato in ortopedia, accanto al mio.
«E poi?» riprendo io, per stimolarlo a concludere.
«E poi bisogna capire come starà. In questi giorni ci siamo presi la nostra solita pausa per la vacanza, come facciamo ogni anno, ma il malore di mio padre non ci voleva. Al ristorante, quando riapriremo la settimana prossima, non posso mancare. Siamo nel pieno della stagione estiva».
Ogni estate Manuel tornava con la famiglia in Italia, in una casa al mare a pochi passi da qui, l’unico possedimento che era rimasto loro nel nostro paese, donato dai genitori materni. Le estati passate Manuel era venuto, oltre che con suo padre, anche insieme alla fidanzata. Quest’anno, invece, non solo era venuto senza di lei, ma la vacanza aveva preso una piega del tutto inaspettata, e per certi versi tragica.
«Magari si sistema tutto e in poco tempo… così la settimana prossima torni al ristorante, e tuo padre prosegue le cure».
Manuel mi guarda come se avessi parlato un linguaggio da lui non accettabile. Il futuro, pare pensare, è incerto e non cambierà in tempi brevi. Il presente è adesso, ed è quello che si vede. Suo padre sta male.
Il suo silenzio poi torna a riempire l’aria, è eloquente e basta più di ogni altra parola.
Intanto si è fatto tardi. Ho bisogno di chiamare Maurizio per sapere come sta Francesco.
«Devo andare» gli dico pur ammettendo a me stessa che quel ragazzo mi fa tenerezza. Chissà come e cosa mangerà stasera, a casa da solo.
Ma preferisco non chiedergli nulla.
Lui, al mio saluto, annuisce senza dire altro.