Se c’è una cosa che adesso proprio non mi va è di discutere. Mio marito è fatto di coccio: gli ho chiesto espressamente, in questi giorni, di prendersi cura di Francesco mentre sono al mare, e di lasciarmi fare “la figlia”. Sia perché è il mio compito, sia perché lo devo fare impegnando il 100% del mio tempo. Mentre nessuno sa dire se mio padre tornerà a camminare, io devo essere al completo servizio della mia famiglia. Anche perché, lo abbiamo visto, mio fratello se ne sta tranquillamente in Val d’Aosta e ci farà la grazia di venirci a trovare chissà quando. Il fatto è che non voglio intralci, questo è il messaggio sottinteso a tutta la storia. Sarà forse una sintesi un po’ immediata, che sarebbe meglio non spiegare. Eppure mi tocca discutere di nuovo sugli stessi argomenti, anche la sera dell’intervento.
Quando non vuoi capire, devi sempre fare uno sforzo in più. E, per chi te lo deve spiegare, lo sforzo è triplo: perché bisogna parlare in modo deciso, ma educato. Però non basta. Perché poi bisogna anche trattenere i nervi e rimanere concentrati (cosa alquanto complicata, visto che adesso i miei pensieri sono dedicati a ben altro). E infine bisogna accettare il fatto di aver impiegato del tempo, ancora, a spiegare qualcosa su cui ero stata chiara.
Forse lui mi vuole solo del bene e vuole stare con me in questo momento?
Non so, ma poche storie. Gli ho detto che va bene così, e che è più importante che lui stia con Francesco.
Evidentemente però sono brava. E tenace. E con qualche piccolo sforzo e un paio di profondi respiri, riesco di nuovo a ottenere il risultato. Al ritorno a casa sono stata al telefono con lui solo mezz’ora, per spiegargli di nuovo tutto quello che mi sembrava già condiviso, conosciuto e compreso.
Quando arriva il giorno seguente, sembra davvero un altro giorno. Appena giunta all’ospedale insieme a mia madre, vedo mio padre che parlotta con Manuel. È abbastanza vivace, gli avevano tolto la flebo. Io e mia madre ci avviciniamo a lui, lei gli fa le solite domande di rito. «Come stai?», «Hai mangiato?», «Hai dormito?».
Io mi giro verso il ragazzo spagnolo. «Tu non hai dormito, dì la verità…». Poi guardo suo padre che, a differenza del mio, ancora non avevo sentito parlare. E neanche oggi mi sembrava propenso a farlo.
Manuel scuote la testa, guardandomi mentre mi avvicino.
«Com’è andata la notte? Come sta tuo padre?» gli chiedo.
«È stabile… Ma è ancora presto per dirlo».
«I medici non ti hanno detto nulla?».
«Ancora no, il primario è dall’altra parte dell’ospedale…».
Annuisco. Do un’occhiata ai miei genitori. In quel momento parlottano del clima, del vento che aveva tirato la notte passata e di altre frivolezze.
«E tu, invece, come stai?» mi rivolgo di nuovo a Manuel.
Il ragazzo abbassa leggermente il capo. «Diciamo che è passata la notte» aggiunge in tono abbastanza risolutorio. Rimane poi in silenzio e torna con gli occhi sul padre. Ma immagino che più di questo non possa dirmi, né meglio di così possa sentirsi.
«Ma almeno hai mangiato qualcosa ieri? E stamattina? Hai fatto colazione?» mi rifaccio sotto in preda a uno strano quanto inaspettato senso di affetto materno verso il ragazzo trentacinquenne di Saragozza.
«Qualcosa sì… qualcosa ho mangiato» prova a imbastire una risposta, che sa però di bugia. «Oggi devo comprare un po’ di cibo, perché non ho fatto in tempo nei giorni scorsi e non ho più nulla a casa».
Gli sorrido. “Meglio così”, penso. Torno poi dai miei, a sentire se ci sono novità. Papà mi sembra che abbia trovato la giusta spinta per affrontare il momento. Ciò mi fa sentire più leggera, soprattutto nei confronti di mia madre, che all’inizio sembrava non darsi pace dell’accaduto.
Pochi attimi dopo arriva un’infermiera. Ha un passo deciso, guarda prima a noi.
«Signor Gregoretti?» fa con tono sbrigativo.
«Sì» le risponde Manuel, nascosto all’angolo della stanza.
La infermiera lo informa che il padre ha dormito bene, ma che bisogna attendere le prossime ore per vedere come procede la fase postoperatoria. La donna aggiunge poi che il primario sarebbe venuto non prima delle 13.
Il volto di Manuel si incupisce immediatamente.
«Così tardi?» azzarda un commento.
«Purtroppo non so cos’altro dirle» gli aggiunge prima di andarsene con la stessa rapidità con cui era arrivata.
Cala un silenzio gelido nella stanza. Manuel ha l’espressione di chi si ritrova impotente, senza risorse, a immaginare vie d’uscita che al momento non si mostrano. Noto nel suo sguardo una specie di remissione che sa di sconfitta senza appello. Guardo suo padre, che ha gli occhi fissi sul figlio. Lui sì, a differenza del mio, ha ancora la flebo inserita nel braccio.
«Solo un po’ di pazienza ancora, papà», il ragazzo prova a tranquillizzarlo. Poi noto che guarda l’orologio. «Vista l’ora, vado a comprare quello che ci serve. Qualcosa da mangiare per me, e un po’ di fazzoletti e acqua per te, che il bar dell’ospedale è carissimo».
Il padre annuisce, senza aprire bocca.
«Chissà se il supermercato che conoscevo qua vicino c’è ancora» riflette il figlio ad alta voce mentre raccoglie il cellulare e delle chiavi poggiate su un tavolino vicino.
«Non ti preoccupare» mi inserisco all’improvviso tra i suoi pensieri. Noto che nel frattempo mia madre si gira sorpresa verso di me. «Conosco un posto non lontano da qua dove c’è roba buona e a poco prezzo. Anch’io devo fare la spesa. Se vuoi ti accompagno».