Era tutto buio, intorno a noi, tranne quando passavamo davanti a qualche locale aperto o in qualche piazza del lungomare. Per il resto, dovevo solo fare attenzione ai capelli che mi andavano costantemente sugli occhi.
Io e Manuel stavamo facendo qualcosa di illegale. Quando aveva scoperto che non ero mai montata su una moto, ma solo su qualche motorino e per giunta tanti anni fa, mi aveva detto che avrei dovuto provare qualcosa di diverso. Subito, senza pensarci troppo, e soprattutto «senza casco». Anche lui avrebbe fatto ugualmente.
«Dai, un giretto di un quarto d’ora qua vicino» mi aveva detto dopo che eravamo tornati sotto casa sua, «così almeno vedi di cosa si tratta. Certo…» aveva alzato le mani «solo se ti va. Non voglio assolutamente forzarti».
A quel punto avevo fatto un sorriso di sorta, ma più che di sorta forse sembrava di resa. Alla sua Honda, anzitutto. E al rombo che faceva, alle vibrazioni che avrebbe trasmesso quel sedile, e all’idea di tagliare il vento in due, mentre si camminava veloci accanto al mare.
Io lo avevo guardato ancora un attimo. Poi avevo indossato il maglioncino che mi ero portata, e me l’ero abbottonato. Non servivano altri messaggi.
Montai. Lui accese la moto. Mi venne da sorridere, e da trattenere il fiato. Quando partì, ansimai per un istante per l’adrenalina che mi rimbalzava nello stomaco. E alla prima curva, giù per un vicoletto del borgo, un brivido inaspettato si arrampicò lungo la schiena. Chiusi gli occhi, mi feci leggermente indietro con la testa e mi lasciai trasportare. Manuel non andava veloce, ma a me sembrava quasi di volare, di essere sospesa nell’aria, di essere padrona della strada. Quando poi lui aumentò la velocità, le sensazioni continuarono a moltiplicarsi. Non sarei mai voluta scendere, quel “giretto di un quarto d’ora” per me sarebbe potuto durare tutta la notte. Non guardavo avanti, stranamente mi fidavo di chi conoscevo solo da pochi giorni, e che sapevo mi avrebbe riportata alla macchina al termine del “tour”. Forse sì, forse ero io quella che non voleva tornare, e allora provavo a godermi la strada, a contemplare il mare, macchiato da un tenue riflesso di una luna crescente.
Poi all’improvviso Manuel arrestò la corsa. Ma forse si trattava di qualcosa di previsto. Fermarsi e guardare quello che c’era davanti a noi da un punto inaspettato, sconosciuto, che non avremmo mai individuato se non grazie alla moto. Manuel aveva trovato una piccola zona di parcheggio, deserta e con al centro un lampione non funzionante. Ci sedemmo sul muretto che costeggiava il mare. C’era un certo vento che dava fastidio, l’indomani forse sarebbe stato brutto tempo. Davanti a noi un’ombra estesa fatta di sabbia, e poi il rumore delle onde. Pochi secondi e a entrambi venne da alzare il naso. Il vero spettacolo infatti era sopra di noi, il cielo brillava di stelle. Un tappeto puntellato di perline luccicanti che sarei rimasta per ore, imbambolata, a osservare, come se dovessero dirmi qualcosa. A me, che se per caso una di loro cadeva, in quel momento non avrei avuto il benché minimo desiderio da esprimere.
Io però continuavo a non avere paura. Se si fosse trattato di una tattica del ragazzo spagnolo per stamparmi un bacio sulle labbra, beh, di certo non sarei potuta scappare da sola sul litorale deserto, alle 11 di sera inoltrate. Ma sicuramente sapevo cosa gli avrei detto, e lo avrei fatto in modo gentile, garbato, senza dare spazio a eventuali altre possibilità.
«Questo ce l’hai anche in Spagna, no?» gli dico rompendo il silenzio di adorazione in cui eravamo sprofondati.
Manuel fa uno sghignazzo composto. «Sì, questo cielo ce l’abbiamo anche noi».
Ritorniamo nuovamente a osservarlo, in alto. Lui mi offre una sigaretta, poi si prende la sua. Ce le accendiamo e subito dopo Manuel riattacca a parlare. Mi dice l’ultima volta che era venuto nel posto dove stavamo. Era da solo, persino senza il padre. Si trattava di un fine settimana lontano da tutto e da tutti.
«Ma forse non lo ero davvero…», prosegue. «Continuavo a pensare a Beatriz. Ora per fortuna l’ho rimossa. Lei mi ha tradito, adesso sta con un altro».
Io annuisco, non so cos’altro dire. Faccio un tiro di sigaretta.
«Ma vedi, alla fine credo che sarebbe successo ugualmente», aggiunge.
«Che lei sarebbe andata con un altro?».
«No. Che ci saremmo lasciati».
Lascio sospendere in aria le parole di Manuel, poi iniziamo una piccola dissertazione sulla vita, sulle dinamiche dell’amore e delle relazioni. Gli parlo anche un po’ di me, di mio marito, ma senza entrare troppo nel dettaglio. Non mi va proprio di farlo.
«Era lui al telefono, prima?», mi chiede.
«Sì».
«Anch’io farei altrettanto…» mi dice alzandosi. «Dai, torniamo alla moto, abbiamo sforato il nostro quarto d’ora almeno di dieci minuti».
Pochi secondi e siamo ancora sulla strada. L’aria ritorna a essere fresca, piacevole, mi distende il viso e l’umore. In certi momenti mi arriva dentro le narici un’essenza inaspettata, un profumo che proviene dal collo di Manuel. Mi sta a pochi centimetri, ma per pudore non voglio avvicinarmi con il naso. E sarà stato per colpa della velocità, o perché sono ancora agitata emotivamente da quel giro in moto, ma non riesco comunque a riconoscerne l’odore.
Però, lo confesso, è buono.