Il contenuto di questo post mi ronza in test da giorni, forse persino da mesi. E decido di scriverlo al ritorno da una serata di flamenco, con ancora il frastuono schiacciante dei tacchi sul palco, e la visione ipnotica delle mani, leggere come tanti ventagli al vento.
Non solo.
Anche le espressioni dure, concentrate, quasi sofferenti delle ballerine, pronte a esplodere appunto in una scarica di pedate sul pavimento a ritmo di musica.
Io cercavo di essere concentrato, ma non ci riuscivo facilmente. Pensavo alla sensualità del ballo, ma anche alla malinconia dei loro visi, che interpretavano a puntino il suono della chitarra e le parole cantate dal vivo. Acuti che ricordavano che qualcosa, nell’aria, mancava. Parole e grida verso un amore finito, o verso una disgrazia familiare. Oppure, più semplicemente, verso chi doveva esserci ma, per i casi della vita, non era lì. Lì con chi cantava.
E allora non so, se quella parte di noi che vuole la felicità fino in fondo cerca qualcosa che in realtà non si può avere. Non so, se quella parte di noi che vive ogni giorno pensando che “quel momento arriverà”, semplicemente ha scelto di accontentarsi, pur a malincuore, perché “basta che si vada avanti”. Non so, se quella parte di noi che ancora cerca, forse non ha ben capito cosa vuole.
Io penso che serva più sofferenza “sana” (di quel tipo che vale la pena vivere), più leggerezza, meno favole tragiche e, soprattutto, meno propensione al “farsi salvare da qualcuno”.