Minirotaie

Regarding life course and its intersections

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Ci siamo, domani è il giorno. La più grande potenza mondiale sceglie il suo governatore.

Ma siamo sinceri. Non so se siete mai stati negli U.S.A., né so se – in particolare – siete mai stati a Washington. Ecco, Washington è una città istituzionale, monumentale, che pulsa di istituzioni. E’ fatta di politica, di scuole di diritto e di codici, di biblioteche zeppe di tomi impolverati.

Il Lincoln Memorial, ad esempio, mette i brividi solo a guardare, per qualche attimo, gli occhi di marmo della statua di Abraham. Tutto questo incarna un potere autorevole, dignitoso, che appunto basta fissare per un attimo per rimanerne in qualche modo pervasi, e poi renderne atto.

Ecco.

Con il pensiero di avere la faccia di Lincoln che mi guarda dall’alto, un po’ mi rammarico, un po’ mi preoccupo. Perché appunto, siamo sinceri… ci troviamo davanti al peggior scenario politico possibile che un paese possa offrire. E quel che è peggio è che questo scenario è offerto da un paese che non dovrebbe permettersi il lusso di presentare campagne di questo tipo. Sono molto deluso, e vista la delusione non so cosa aspettarmi, domani.

Ok, lo dico, vorrei che vincesse il male minore, ossia Hillary. Ma mi preoccupo che i Democrats non siano stati in grado di tirar fuori, dopo Obama e dopo 8 anni, una nuova figura. Volendo una nuova speranza. Mi può consolare solo l’idea che, dopo un afro-americano, ora possa toccare a una donna. Ma non mi basta.

Ed ecco allora che ai Republicans è toccato rispondere, e l’unica via è stata quella di andare sul trash. Perché se da una parte c’è il vecchio che avanza, dall’altra bisogna fare solo rumore, gridare al mondo che gli U.S.A. dovranno essere i padroni indiscussi, girare tutti insieme pistola-muniti, costruire muri.

Un po’ come succede anche in Europa.

Chissà se era inevitabile, in alcuni punti della Terra e in un mondo dove le barriere ormai si scavalcano con un clic, avere prima o poi questi pensieri. Ritorno allora a guardare Lincoln. Lui no, questi pensieri non li aveva. Lui, nel 1865, aveva abolito la schiavitù. E credo che avesse avuto molto più coraggio di chi, oggi, non fa altro che gridare più forte, sparare più lontano e costruire barricate dietro le quali difendersi.

Un po’ come se si stesse in guerra.

Siamo arrivati a 26 capitoli. 26 giorni, 26 storie brevi legate a Diletta, alla sua vita, alla sua voglia di cambiare.bellabarba_cover

Ma si può cambiare così facilmente?

Più è grande il cambiamento, più questo comporta una grande esposizione. E un grande coraggio.

Diletta è quindi a un passo dal “fare” ma, appunto, serve coraggio. Serve passare o meno da quella porta che Manuel le sta tenendo aperta. Ce la farà, o si tirerà indietro? E poi, con suo marito Maurizio, quale sarà l’esito? Riuscirà finalmente ad abbandonarlo?

“Sapeva di zenzero” è un racconto di 30 brevi capitoli che narrano di scelte, di coraggio, della ricerca di una nuova vita o, più semplicemente (o più profondamente) della ricerca della felicità.

Per cui, a volte e anche se sembra incredibile, basta solo passare (o meno) attraverso una porta.

Se vorrete saperne di più, attendete ancora qualche giorno, e “Sapeva di zenzero” sarà disponibile in e-book.

Al momento lo trovate sulla piattaforma “Il mio libro”, a questo link

“Sapeva di zenzero”, di Marco Bellabarba

Come sempre, buona lettura a tutti, e attendo le vostre critiche e osservazioni!

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Devo ammettere che ho un debole per le case in mattonato. L’Italia è piena di questi borghi che si attorcigliano su se stessi, regalandoti un’immagine antica, ma allo stesso tempo pregiata. Quando si vedono dall’alto, in qualche foto-cartolina, hanno un certo fascino. Ma quando poi te li trovi davanti, ti chiedi da quanti anni sono in piedi, chi le ha costruite, come sono fatte dentro.

Manuel ha appena parcheggiato la moto nella piazzetta dove affaccia anche casa sua. Accanto c’è un altro piccolo edificio con una specie di portici a forma di arco alla base, sotto i quali c’è la macchina di mia madre. Mi giro intorno. In effetti è vero, è l’unica vettura che si vede in quel quadrilatero di case antiche, e non c’è altra anima in giro. Sarà poi per l’orario, sono le 11 passate da un pezzo, ma non c’è neanche alcuna luce accesa dietro le persiane, peraltro tutte chiuse.

Sembra come se ci fossimo solo io e lui, in quel pezzo di mondo. E la cosa ora cominciava a destarmi qualche dubbio, se mi piaceva o meno. Se volevo ancora trattenermi, o andare via.

No, a questa domanda onestamente io non ero preparata.

«Te l’ho detto quando eravamo al supermercato» mi fa Manuel, dopo aver notato che mi giravo intorno «qui sono in pochi, e vanno a letto presto… Beh, come è andata la gita senza casco?».

Mi accarezzo i capelli, cercando di sistemarmi almeno la frangetta. «È stata divertente…» ammetto, mentre lui mi sorride. «Sì, è stata divertente».

«Ne ero certo. La moto fa spesso questo effetto, specialmente se è la prima volta che ci sali sopra» commenta mentre dà un paio di botticine al sedile. «Lei è fantastica, non mi delude mai».

«In che senso non ti delude mai

«Ognuno di noi ha delle aspettative, no? Ecco, ero certo, appena ti ho invitato a salirci sopra, che alla fine avresti avuto questo sorriso qua» termina indicandomi.

Io rimango immobile, mentre lui mi passa accanto. Non so cosa dire, so solo che non posso fingere di essere stata bene. Con gli anni, però, ho imparato anche a rispettare i silenzi. D’altronde a volte sono necessari, e non si fa dispiacere a nessuno se in qualche momento si rimane senza aprire bocca. Chiamatela difesa, chiamatela ansia, chiamatela strategia, ma io in questi momenti preferisco non dire nulla.

Sento poi un rumore di chiavi. Manuel le ha appena estratte dal suo borsello. Sono momenti rapidissimi che in realtà vorrei congelare, proprio mentre lui cammina verso il portone di casa. È un portone alto, rivestito in legno, con le sagome di due leoni con in bocca un anello al centro delle ante. Lui però non si gira, sembra noncurante di avere una donna, a pochi metri, che lo osserva con una certa agitazione. Perché in un modo o nell’altro questa serata dovrà finire, e io dovrò prendere una decisione che mi potrà dare la gioia di una soddisfazione, la rabbia di un rimorso, o la serenità di un’accettazione. Che succeda qualcosa, oppure che ci sia un rifiuto, oppure che non succeda assolutamente nulla… in ogni caso, niente potrà essere come prima.

Manuel è ormai davanti al portone. Infila la chiave nella toppa e lo spinge in avanti. Scorgo, qualche passo più indietro, un ingresso debolmente illuminato. Forse una di quelle abitudini antiche, di lasciare una luce accesa in casa quando i padroni non ci sono, che evidentemente è stata conservata anche dalla sua famiglia.

Pur rimanendo distante, una zaffata di odore di umidità, di cantina, mi cattura le narici. Con la testa e lo sguardo cerco di curiosare oltre l’ingresso, e vedo che in fondo c’è una scala che porta ai piani superiori e, a sinistra, un piccolo divano e una scultura in marmo raffigurante una donna, in cima a una colonna, anch’essa di marmo.

Manuel a questo punto si gira. «Allora, ragazza dai capelli scompigliati… che fai, vieni su?»

In quel momento la situazione delude le attese. Perché sebbene me lo aspettassi, a differenza di quello che capita nei film importanti, di quelli che magari vincono anche dei premi prestigiosi, non vedo nulla. Non si attiva, nella mia testa, quel flusso di immagini rapidissime dove davanti ai miei occhi, all’improvviso, ripasso tutta la mia vita, le immagini di Francesco da piccolo, appena nato, o di Maurizio mentre mi prepara la cena.

Niente. Vuoto totale.

Ma forse la mia vita non è un film. E davanti ho la pura realtà. Davanti c’è Manuel, che attende una risposta.

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Dove sono.

Cosa sto facendo.

Ma soprattutto perché.

Non mi sembra alla fine qualcosa di logico, di ben disegnato. Qualcosa che mi permette di fare luce, e di capire. Quando le persone mi dicono che alcune cose accadono così, con la velocità che non ti aspetti, e che banalmente ti lascia fermo sul posto come la vittima di un sequestro lampo… quasi tocca crederci. E tu stai lì e provi a chiederti, ma quando la mente non metabolizza, non va allo stesso tempo in cui viaggia la realtà, la verità – se così possiamo chiamarla – arriva dopo, arriva in ritardo. Senza giustificazioni.

Mi serve tutto quello che sto facendo?

Mio marito, mi manca?

Domani lo rivedrò. Ha detto che viene a trovarmi, anche solo per un giorno. Per vedermi, per capire.

Amore e irresponsabilità. Non mi è chiaro fino a che punto esiste il collante, l’alchimia, il nesso. Eppure sono convinta che per amare bisogna essere irresponsabili, ma bisogna anche capire verso chi è diretto, l’“amore”.

Verso l’altra persona? Verso noi stessi?

Credo che la perfezione richieda il doloroso sforzo di seguire entrambi. Ma di certo non possiamo prescindere dall’amare noi stessi.

Né esiste la perfezione.

Ecco, io non so bene quello che sto vivendo, né come lo sto facendo. Perché se ci deve essere dell’irresponsabilità nell’amare, allora non voglio adesso pensare a nulla. Alle conseguenze e, di certo, alle responsabilità.

Non mi scocciate. Non ditemi quello che devo fare, o come lo devo fare. Si aprirebbe una discussione futile che farebbe solo perdere tempo, riflettere, guardare di meno quello che adesso ho sotto agli occhi. E tutto questo si trasformerebbe poi in un dibattito su ciò che mi serve o non mi serve.

Perché, voi sapete subito tutto quello che è necessario? Sapete subito qual è la migliore mossa da fare, e come vi sentirete dopo che l’avrete messa in atto?

Ma un po’ di bontà per favore… Un po’ di bontà, ecco quello che serve. E anche dell’autocoscienza.

Mi trovo seduta su una moto potente, con i capelli accarezzati dal vento e alle spalle di questo tizio che conosco da circa 48 ore. Fra poco raggiungeremo casa sua dove riprenderò la macchina. È stata una serata speciale. Non voglio pensare al domani, ora. Non me lo merito. Sebbene, lo ammetto, vorrei che tutto si risolvesse con qualche strano tocco magico, come nel sogno di tante notti fa. O come le carte di un solitario dove, come per incanto, ognuna va al proprio posto coprendo ogni spazio rimasto, carta dopo carta, mossa dopo mossa, come per ordine divino.

Ma così è troppo facile. Così non funzionerà. Le carte, da mettere sul tavolo, non le prendiamo sempre dal mazzo. Perché non dimentichiamoci che a un tratto siamo noi che le dobbiamo scegliere, e calare giù.

No però, non è questo il modo. Così mi state facendo pensare. Preferisco guardare avanti, alla strada che maciniamo in moto. E godere delle note fresche del suo profumo.

Questo, adesso, è più che sufficiente.

moto

Era tutto buio, intorno a noi, tranne quando passavamo davanti a qualche locale aperto o in qualche piazza del lungomare. Per il resto, dovevo solo fare attenzione ai capelli che mi andavano costantemente sugli occhi.

Io e Manuel stavamo facendo qualcosa di illegale. Quando aveva scoperto che non ero mai montata su una moto, ma solo su qualche motorino e per giunta tanti anni fa, mi aveva detto che avrei dovuto provare qualcosa di diverso. Subito, senza pensarci troppo, e soprattutto «senza casco». Anche lui avrebbe fatto ugualmente.

«Dai, un giretto di un quarto d’ora qua vicino» mi aveva detto dopo che eravamo tornati sotto casa sua, «così almeno vedi di cosa si tratta. Certo…» aveva alzato le mani «solo se ti va. Non voglio assolutamente forzarti».

A quel punto avevo fatto un sorriso di sorta, ma più che di sorta forse sembrava di resa. Alla sua Honda, anzitutto. E al rombo che faceva, alle vibrazioni che avrebbe trasmesso quel sedile, e all’idea di tagliare il vento in due, mentre si camminava veloci accanto al mare.

Io lo avevo guardato ancora un attimo. Poi avevo indossato il maglioncino che mi ero portata, e me l’ero abbottonato. Non servivano altri messaggi.

Montai. Lui accese la moto. Mi venne da sorridere, e da trattenere il fiato. Quando partì, ansimai per un istante per l’adrenalina che mi rimbalzava nello stomaco. E alla prima curva, giù per un vicoletto del borgo, un brivido inaspettato si arrampicò lungo la schiena. Chiusi gli occhi, mi feci leggermente indietro con la testa e mi lasciai trasportare. Manuel non andava veloce, ma a me sembrava quasi di volare, di essere sospesa nell’aria, di essere padrona della strada. Quando poi lui aumentò la velocità, le sensazioni continuarono a moltiplicarsi. Non sarei mai voluta scendere, quel “giretto di un quarto d’ora” per me sarebbe potuto durare tutta la notte. Non guardavo avanti, stranamente mi fidavo di chi conoscevo solo da pochi giorni, e che sapevo mi avrebbe riportata alla macchina al termine del “tour”. Forse sì, forse ero io quella che non voleva tornare, e allora provavo a godermi la strada, a contemplare il mare, macchiato da un tenue riflesso di una luna crescente.

Poi all’improvviso Manuel arrestò la corsa. Ma forse si trattava di qualcosa di previsto. Fermarsi e guardare quello che c’era davanti a noi da un punto inaspettato, sconosciuto, che non avremmo mai individuato se non grazie alla moto. Manuel aveva trovato una piccola zona di parcheggio, deserta e con al centro un lampione non funzionante. Ci sedemmo sul muretto che costeggiava il mare. C’era un certo vento che dava fastidio, l’indomani forse sarebbe stato brutto tempo. Davanti a noi un’ombra estesa fatta di sabbia, e poi il rumore delle onde. Pochi secondi e a entrambi venne da alzare il naso. Il vero spettacolo infatti era sopra di noi, il cielo brillava di stelle. Un tappeto puntellato di perline luccicanti che sarei rimasta per ore, imbambolata, a osservare, come se dovessero dirmi qualcosa. A me, che se per caso una di loro cadeva, in quel momento non avrei avuto il benché minimo desiderio da esprimere.

Io però continuavo a non avere paura. Se si fosse trattato di una tattica del ragazzo spagnolo per stamparmi un bacio sulle labbra, beh, di certo non sarei potuta scappare da sola sul litorale deserto, alle 11 di sera inoltrate. Ma sicuramente sapevo cosa gli avrei detto, e lo avrei fatto in modo gentile, garbato, senza dare spazio a eventuali altre possibilità.

«Questo ce l’hai anche in Spagna, no?» gli dico rompendo il silenzio di adorazione in cui eravamo sprofondati.

Manuel fa uno sghignazzo composto. «Sì, questo cielo ce l’abbiamo anche noi».

Ritorniamo nuovamente a osservarlo, in alto. Lui mi offre una sigaretta, poi si prende la sua. Ce le accendiamo e subito dopo Manuel riattacca a parlare. Mi dice l’ultima volta che era venuto nel posto dove stavamo. Era da solo, persino senza il padre. Si trattava di un fine settimana lontano da tutto e da tutti.

«Ma forse non lo ero davvero…», prosegue.  «Continuavo a pensare a Beatriz. Ora per fortuna l’ho rimossa. Lei mi ha tradito, adesso sta con un altro».

Io annuisco, non so cos’altro dire. Faccio un tiro di sigaretta.

«Ma vedi, alla fine credo che sarebbe successo ugualmente», aggiunge.

«Che lei sarebbe andata con un altro?».

«No. Che ci saremmo lasciati».

Lascio sospendere in aria le parole di Manuel, poi iniziamo una piccola dissertazione sulla vita, sulle dinamiche dell’amore e delle relazioni. Gli parlo anche un po’ di me, di mio marito, ma senza entrare troppo nel dettaglio. Non mi va proprio di farlo.

«Era lui al telefono, prima?», mi chiede.

«Sì».

«Anch’io farei altrettanto…» mi dice alzandosi. «Dai, torniamo alla moto, abbiamo sforato il nostro quarto d’ora almeno di dieci minuti».

Pochi secondi e siamo ancora sulla strada. L’aria ritorna a essere fresca, piacevole, mi distende il viso e l’umore. In certi momenti mi arriva dentro le narici un’essenza inaspettata, un profumo che proviene dal collo di Manuel. Mi sta a pochi centimetri, ma per pudore non voglio avvicinarmi con il naso. E sarà stato per colpa della velocità, o perché sono ancora agitata emotivamente da quel giro in moto, ma non riesco comunque a riconoscerne l’odore.

Però, lo confesso, è buono.