Minirotaie

Regarding life course and its intersections

tuffo

È quindi arrivato il momento di dirgli tutto. Sì, tutto quanto. Mi devo gettare… Nell’acqua più torbida, ma lo devo fare. Avverto in questo attimo un inaspettato aumento della sudorazione sotto le ascelle, intorno al collo. Forse sono anche rossa in viso, ma mi rendo conto che non ho altre vie di fuga. La verità. Solo la verità, detta tutta d’un fiato e senza respirare. Sì, mi piace provare l’ebbrezza del rischio. Il punto di non ritorno. Capire se qualcosa fa davvero male e vedere che reazioni si hanno, dall’altra parte.

Alla fine lui la fatidica domanda me l’ha fatta, eccome se me l’ha fatta. E, dopo, si era avvicinato. Mi stava guardando, con due occhi color carbone e quel silenzio, che preannunciava le sue parole – lo ammetto – un po’ mi intimoriva.

«C’è qualcosa che non va, Diletta? È tutto a posto?».

Una domanda aperta.

Una domanda aperta che presuppone che io prenda qualsiasi strada per rispondere. La stanchezza del periodo. I casini in ufficio. Francesco che non socializza con i suoi amici come vorrei. La paura di entrare in menopausa!

Ma se ne accorgerebbe, che sto fingendo?

Forza Diletta, un colpo e via, la strada è tutta tua. E sai benissimo che questa strada è diversa da ipotetiche scorciatoie. Lui non sa niente, perché non si aspetta niente. Perché sa che domani sarà ancora lì con te, e tu con lui. Perché i tradimenti, da parte sua, come hai visto avvengono solo nei sogni e perché tu, alla fine, sei moglie, mamma di tuo figlio, a volte mamma di tuo marito, amica di entrambi ma fino a un certo punto, amministratrice della casa e organizzatrice delle vacanze.

Pure organizzatrice delle vacanze.

A pensarci bene questa cosa mi dovrebbe far incazzare.

Fa caldo. Ecco il vero problema di stasera.

Sebbene devo ammettere una cosa. Tempo fa avevo fatto un corso sul problem solving, e di tutte le cose che il docente ci aveva parlato, immerse nella sua presentazione di 120 slides, una mi era rimasta impressa in modo particolare. La differenza tra limite e problema. Ad esempio: il traffico, nelle grandi città, è un problema? Può essere invocato come scusa di un ritardo a un appuntamento? Assolutamente no. Il traffico nelle grandi città è un limite, è una caratteristica risaputa. Ti devi organizzare prima, se vuoi arrivare in orario a un appuntamento. Non c’è proprio nulla da risolvere.

Stesso discorso vale per il caldo d’estate.

Mio marito però è ancora lì, che aspetta una risposta.

Io scuoto la testa, in modo anche vigoroso. E poi lo ammetto. «No Maury. È tutto a posto. Ho solo caldo e un po’ di stanchezza».

E capisco che se i problemi nascono per essere risolti, i limiti esistono perché se ne prenda atto e, poi, si trovi un giorno la forza di superarli.

mappa

Sapevo che si sarebbe trattato di un rebus. E a me i rebus non sono mai piaciuti. Quelle figure, quelle lettere messe volontariamente a caso, i numeri… I rebus sono pensati per farti rodere dentro. Perché poi quando vieni a sapere la soluzione, beh, era così evidente che ti senti scema.

I rebus sono malefici, meschini, umiliano la tua autostima come una maestra di prima elementare che ti mette in punizione all’angolo perché non eri attenta. Mentre se riesci a risolvere il giochino, alla fine, non è che il tuo umore viene sconquassato dalla felicità.

Ecco, i giorni a venire per me sarebbero stati un rebus. Un gioco a perdere. A cominciare proprio da quel giorno lì. Era tutto chiaro, tra me e mio marito Maurizio: le ferie erano nella parte centrale d’agosto. 2 settimane insieme a Francesco nella casa in Toscana. Una bella casetta, grande abbastanza da ospitare noi 3, il cane, mia suocera Linda, la sorella di mia suocera Giusi. Mare pulito, posto poco caotico, relax anche a ferragosto.

Poi, come sempre, un lungo weekend a fine mese solo per me e Maurizio, mentre Francesco sarebbe andato dritto a casa dei miei, che tanto gli fanno fare quello che vuole. Io e mio marito invece verso qualche angolo dell’Europa. L’estate scorsa a Lisbona: carina, un po’ bohémienne, elegante con pochi sfarzi. Due anni fa a Dublino: in 4 giorni abbiamo beccato la pioggia di un anno. L’estate ancora prima, invece, era toccato a Berlino. Ma Berlino già la conoscevamo, solo che era da tempo che non ci tornavamo e avevamo trovato una super offerta in un hotel di lusso. Una suite addirittura con la piscina nel soggiorno.

Sembravamo due fidanzatini.

Già.

Era solo 3 anni fa.

Ma sembra essere passata una vita.

Allora volete sapere la verità? Eccola. A me semplicemente non va di andare in vacanza con mio marito. Questa, è la verità.

Ora sono seduta al tavolo della cucina, sto mettendo a posto le ultime bollette nei faldoni, controllo a che punto stiamo col pagamento del mutuo, passo insomma una serata di metà luglio, caldissima, nel modo più esaltante che c’è.

Tanto fra poche settimane si parte.

Francesco è in camera sua, a vedere la televisione, penso qualche manga giapponese.

Poi arriva lui, nel silenzio più totale.

«Hey» mi dice.

Alzo gli occhi. «Pensavo che stessi guardando il film con Bud Spencer… poveraccio. Ora che è morto, Rete 4 farà i suoi film in continuazione».

Maurizio scuote la testa. «E’ vero. Ma danno Lo chiamavano Trinità. Io detesto i western, di qualsiasi tipo».

Faccio un ghigno, torno sulle bollette, sbuffo un po’. E non solo per il gran caldo che si sente.

«Tu che dici?» mi domanda facendo qualche altro passo verso di me.

Cavolo, l’ha presa larga. E la cosa non mi piace. Ha il solo e macabro effetto di aumentarmi la pressione, e non solo arteriosa. Quindi glisso.

«Niente… Lo vedi no? Sto mettendo in ordine».

Maurizio ragiona un attimo, poi attacca. «Che facciamo questa estate? Vediamo qualche offerta che ci piace? La botta di culo di Berlino non ci capiterà mai più… però tanto vale provare. Certo, quella piscinetta nella nostra suite, ci siamo divertiti eh?».

Stavolta gli occhi continuo a tenerli sui fogliacci sparpagliati sul tavolo.

«Uè?! Ma mi stai ascoltando?».

«Eh?» faccio finta di riprendermi da tanta concentrazione. «Ma certo che ti sto ascoltando».

«E allora? Che dici… che facciamo? Un mio collega è stato a Londra, dice che è sempre più bella».

Faccio una smorfia. «Sì, così ci prendiamo altra pioggia. Dico, non ti è bastata Dublino?».

Lui fa un’espressione un po interdetta. «Ah già. Non me lo ricordavo neanche più- E allora San Pietroburgo? L’Hermitage?» mi continua a chiedere con le pupille che sbrilluccicano.

Io inarco le sopracciglia, con le mani ancora tra le carte. «Tutte quelle ore di aereo? Ma a te va di farle?» gli chiedo con un tono fintamente interlocutorio.

Maurizio prova ad annuire, ma non gli riesce bene. Rimane per un momento fermo, a contemplare la situazione, sentendosi probabilmente un inutile essere umano, in quell’istante.

E ora che fai maritino mio? Come esci dall’angolo dove siamo finiti entrambi, io da una parte e tu dall’altra?

«Beh… allora dimmi tu» riattacca docilmente «dove ti piacerebbe andare? Hai qualche idea?».

Ecco, bravissimo. Mio marito è stato intelligente. Tanto intelligente quanto, senza volerlo, scaltro. Allora prendo aria, sospiro ancora, ma cerco di non darlo a vedere. E mi dico di essere risolutiva.

«Non lo so Maurizio… Ora ho la testa su altro. Non ci ho proprio pensato, ma…» mi affretto ad aggiungere, prima di trovarmi da sola in mezzo all’oceano in tempesta «domani ci rifletto bene, e se mi viene in mente qualcosa te lo dico subito, ok?».

Lui, in piedi, sembra inebetito. Io torno a concentrarmi sulle scartoffie. Sento allora che blatera qualcosa, ma in realtà sta ripetendo quello che ho appena detto. “Se le viene in mente qualcosa, me lo dice subito…” gli sento dire, con un tono quasi di disprezzo.

Forse non si sta mettendo proprio bene. Con le mani ancora tra le carte cerco furtivamente di osservarlo senza sembrare interessata. Alzo poi di qualche millimetro il viso e vedo che si incammina verso l’uscita dalla cucina. “Ma possibile che non si sia accorto di nulla?” penso mentre continuo a seguirlo nei suoi passi.

Quando ecco che vedo le sue gambe fermarsi. Allora continuo a salire su con lo sguardo. Trovo il suo corpo voltato per metà. I suoi occhi scuri sono lì, fermi impietriti, che mi fissano.

Il rebus, forse, inizia in questo momento. E io non so da che parte cominciare a risolverlo. Forse basterebbe dire “Maurizio, è finita”.

pipa

La segretaria entra con 2 caffè, una bottiglietta d’acqua con succo di limone a parte e un tè freddo. Nulla di straordinario. Il direttore generale dell’azienda ha, nello stanzino accanto, un open bar con tutti i tipi di analcolici: soft drinks, acque, cialde di caffè di vari gusti. Ma anche qualche super alcolico, che generalmente esce fuori dopo la sigla di contratti importanti. In una di queste riunioni celebrative c’ero capitata anche io, un giorno, perché bisognava preparare immediatamente un bonifico per uno dei nostri fornitori, da processare dopo aver venduto un sistema di allarme per un importante impianto sportivo in Veneto. In quel momento, sul tavolo si stava brindando con un distillato trasparente come l’acqua. Una bottiglia che, appena aperta, aveva diffuso l’odore acre di alcol per tutta la stanza.

Io mi ricordo che passai la mano. Ci mancava solo che sbagliassi poi gli estremi del bonifico grazie ai residui di grappa nel sangue. E pensare che in ufficio gira ancora voce che la donna delle pulizie avesse trovato la bottiglia svuotata e capovolta nel cestino sotto la scrivania del dg.

Oggi però non dobbiamo da festeggiare nulla, solo aggiornare il direttore riguardo il software testato a Milano. E per me c’è del tè freddo, mentre il dg si versa del succo di limone fresco nella solita acqua ghiacciata, mescolandola poi con il cucchiaino. Delle nostre parole, però, non se n’è persa manco una. Io avevo fatto l’introduzione, da brava responsabile dell’ufficio; il collega Roberto, un senior, era entrato invece nei dettagli. L’ultimo della squadra, Vincenzo, in azienda da soli 6 mesi, ascoltava, prendeva appunti, ma soprattutto osservava il direttore.

Non capita tutti i giorni di avere una riunione con lui.

A un tratto lo fisso anche io. Il manager, seduto alla solita testa del tavolo, non guarda però nessuno di noi tre. Ha gli occhi bassi, quasi non annuisce, sembra che ci stia facendo un favore. Ma, appunto, saprebbe ripetere alla lettera ogni parola, ogni concetto che abbiamo condiviso intorno a quel tavolo. Perché fa sempre così. Nel bel mezzo di una riunione, proprio quando arriva la segretaria con il vassoio dei drink e dei caffè, lui comincia il solito rituale. Dopo essersi preparato l’acqua con il limone, afferra con la mano sinistra la pipa di legno scuro, e con la destra pesca un po’ di tabacco da un barattolino aperto lì vicino. Poi, mentre Vincenzo continua a spiegare dei dettagli, il direttore infila con una certa attenzione il tabacco nella pipa, pressando delicatamente quel gruzzoletto all’interno del buco.

Infine alza gli occhi, fa un’espressione quasi dolce, interessata, e pronuncia la fatidica domanda.

«Vi dà fastidio?».

I miei collaboratori non sanno cosa rispondere. Io, che conosco il protocollo, sorrido e acconsento. Acqua, limone e tabacco è uno dei peggiori accostamenti che un essere umano avrebbe mai potuto creare, ma non posso fare altro. Poi mi giro verso il collega.

«Prosegui, Vincenzo».

Lui ricomincia a parlare, un po’ impacciato e con gli occhi che non sanno più dove guardare. Il direttore generale invece ha già provveduto ad accendere la pipa con un fiammifero più lungo di quelli tradizionali. E Passano solo pochi secondi. Sì, davvero pochi, quasi non me ne accorgo. Nel frattempo mi perdo. I pori mi si dilatano, sento una strana scossa. Respiro, ma mi rendo conto di farlo perché l’aria che entra nelle mie narici è diversa. Nella stanza si è sparso un profumo caldo, inebriante, i miei polmoni sembrano ringraziare. Quel tabacco è diverso dalle altre volte. All’inizio è dolce, fruttato, ma poi si trasforma. Dalla ciliegia passa al pino. Sa di bosco, è fresco, e termina con alcune note di menta, del tutto inaspettate.

Non penso più al mix avvelenato del suo drink insieme al tabacco, mi sento rapita mentre Vincenzo probabilmente continua a fare la sua dissertazione.

Poi aspetto, e quel mondo, quella confusione mentale che mi si era presentata davanti, a un tratto diventa nitida, riconoscibile, trasparente. Ecco, è proprio lì: mio nonno, seduto su una sedia a dondolo in un angolo del salotto. La stanza è buia, vedo solo la sua silhouette, di spalle, che copre la luce emanata dalla televisione. Tutta la casa è avvolta da questo profumo ipnotico, che ne vorresti respirare ancora e ancora di più.

Mi risveglio e guardo dritta davanti a me. Il direttore in quel momento annuisce. Forse Vincenzo è stato particolarmente convincente.

Io invece ringrazio il destino. In via del tutto gratuita e casuale, mi ha fatto rivivere qualcosa che non c’è più. Esattamente come era allora. La vita è proprio fatta di momenti imperdibili, che speri di avere la fortuna di chiudere gli occhi e di goderti fino in fondo.

La riunione a questo punto può continuare. Sono sicura che andrà bene. Io sono di buon umore, la mia giornata me la sono già conquistata. Ho voglia di tornare a casa presto, di abbracciare mio figlio e di non pensare ad altro. Di non logorarmi. Perché tutto si sistema, tutto. E quello che non si è ancora sistemato, è perché non è stato possibile farlo.

Non voglio di più. Forse solo che questo attimo duri più di quanto io sia abituata a viverlo, e continuare solo a respirare.

Poi, per una volta, lasciare consapevolmente vincere alla vita.

ridondante

Voi che ne pensate delle persone “prevedibili”? Ossia di quelle che hanno il futuro già scritto, e che sapete benissimo cosa faranno nei prossimi 5 minuti, mezz’ora, un giorno, una settimana, forse anche un anno?

No, non è un discorso di mera conoscenza. Anzi, il limite, la soglia, è microscopica. Perché qui tocca vedere la “forchetta”, il range dentro il quale quella persona si orienta, vive. Il massimo che può fare. E leviamo quindi le abitudini quotidiane, la colazione, il giornale o la rivista, l’orario di uscita di casa, il cibo. Ma anche il disordine, o il “caffè-lungo-macchiato”, o il programma televisivo del martedì sera. Gli argomenti in generale.

Perché non è che una persona termina gli argomenti.

Il fatto è che gli argomenti sono sempre quelli, lo sono sempre stati.

E io non me ne sono accorta.

Fino a quando, poi, comprendi che non si può parlare d’altro. Che non si può andare oltre. O che il giovedì o venerdì indosserà sempre quella stessa camicia, perché l’ultima volta che è andato a comprarne una (prezzo medio di una buona, 65 euro) è stato un paio di anni fa. E che quando si prenota al ristorante per festeggiare qualcosa, la scelta è tra i top 3: Da Romeo (pesce sotto casa), Ossi Duri (carne argentina, ristorante di una coppia – gay – amica sua), oppure Nippon (giapponese, super elegante, al centro, e con passeggiata inclusa – di max 20 minuti – prima di rientrare).

Eppure i nuovi trend del mercato certificano che il food è il settore che fa da traino per l’economia italiana. E che nasce un ristorante nuovo ogni settimana.

Io, però, ho persino paura a proporglielo.

E lo volete sapere il perché?

Perché non ne vedo il motivo essenziale, né il margine di probabilità che qualcosa cambi. E quindi inghiottisco la sua prevedibilità. Ma non mi parlate di accettazione, per favore… Già l’abbiamo visto, questo fardello che ci capita come una croce addosso alle spalle. Perché se è vero che “ognuno ha la sua croce”, qui tocca stare attenti a non averne troppe, di croci che ci appesantiscono.

Persino nei litigi, è prevedibile. Tanto alla fine io sono quella che rompe le palle.

Ecco perché dico che gli argomenti sono finiti. Quando il massimo che si può commentare, al mio modo di rompere le palle, è che rompo le palle.

Tautologico? Ridondante?

A me sembra inutile e basta. Come quando non sai bene cosa dire, abbellisci solo quello che hai. A me che, guarda caso, piace lo stile minimal. Zen. O ci sei, o non ci sei. Dentro o fuori. Emozione o noia.

ON/OFF.

Quindi, riassumendo. Come uomo, è prevedibile. E probabilmente lo è sempre stato ma, amen, ne ho preso atto solo ora. Quando facciamo sesso, come vi ho già raccontato, in pratica è come se stessi mangiando un gelato.

Se litighiamo (o discutiamo, o parliamo animatamente, fate voi) io sono la rompipalle (e basta), senza dirmi se c’è qualcosa che deve o non deve essere fatto in altro modo (secondo lui).

E, infine, il concetto di “nuovo”, sempre per lui, è scandito solo dal calendario. Giorno nuovo, settimana nuova, anno nuovo. Il resto, “same as yesterday”.

Allora non so, onestamente, se ho cominciato a disinnamorarmi di mio marito quando, quella notte sotto le lenzuola, aveva troncato fin dal nascere un’ipotesi di secondo figlio. Se in quel momento mi sono scollata con un’impercettibile lentezza che ora mi sta facendo disperdere. La risposta non può essere immediatamente chiara. È solo ciò che sento.

La cosa più frustrante, però, è che spetta soltanto a me capirlo.

fiori

A questo punto devo tornare a bomba, sull’argomento da cui ero partita. Ed è un argomento, un tema, che forse non avrei mai pensato di dover affrontare. E tutto ciò un po’ mi preoccupa, un po’ mi spaventa. Ma penso che sia normale.

Ebbene sì, io non sono più innamorata di mio marito.

Ecco, così ho sgomberato il campo da ogni dubbio.

Volete saperne di più? Immagino di sì. Allora forza: avanti con le domande. Perché credo che ce ne siano almeno un paio… o no?

Forse anche di più.

Bene, dunque. Procediamo. Sono pronta.

Ma è sicura di quello che sta dicendo, signora Diletta?

Beh… diciamo che la situazione è questa. Sono davanti a un mix di insofferenza, di noia, di… “abbondanza”. Ecco, mio marito “abbonda”, è troppo, per me. Ne voglio di meno. Anzi, forse non lo voglio più.

Ma non pensa di essere troppo diretta, di dare un taglio esageratamente netto?

La verità è che ora so come mi sento. Ho detto che forse non lo voglio più. E che lui, comunque, mi comunque mi avanza.

Da quando pensa che è così?

Ecco, questo è il punto. Vuole sapere da quando ho iniziato a sentire meno forte l’amore per mio marito? Questa risposta è difficile, molto difficile. Perché bisogna andare indietro negli anni, e capire anzitutto altre cose.

Ossia?

Ossia che vuol dire “essere innamorata” di mio marito. Io, onestamente, neanche me lo ricordo più. Perché a un certo punto si entra in uno strano meccanismo dove ognuno è nella vita dell’altro. Ma a dir la verità non so se si tratta dell’inesorabile senso di appartenenza che può contraddistinguere una coppia o, più semplicemente, il fatto che ci troviamo uno davanti all’altro perché… perché la vita va così, perché è andata così.

Vuole dunque parlare di abitudine?

No… è impossibile non vivere l’abitudine, in ogni coppia. Il tema infatti è “reinventarsi”, “vivere i propri spazi insieme a quelli degli altri”. Ma a me forse non interessa, o non interessa più. È questo il vero punto. 13 anni di matrimonio più 3 di fidanzamento hanno un significato. E durante il fidanzamento, beh, lì andata come doveva andare. Adrenalina a mille poi… Poi vita di coppia, mese dopo mese, anno dopo anno. Fino ad arrivare al matrimonio. E poi a Francesco.

E dopo?

Già. E dopo. Perché dopo ci siamo fermati. Francesco è arrivato dopo altri 3 anni di matrimonio, e io – sarà perché sono donna, sarà perché sono una donna che ne sente il bisogno – ecco… io avrei voluto continuare.

Voleva un altro figlio?

Sì.

E suo marito?

«Abbiamo i soldi solo per uno», mi disse.

… Ma…

Sì, mi disse proprio così. Me lo ricordo ancora. Era una domenica sera, quel giorno eravamo stati insieme al parco. Era nuvoloso ma si stava bene. Avevo preparato le melanzane alla parmigiana, Maurizio e Francesco avevano giocato a fresbee, io mi ero portata un libro. Poi, la sera, quando mio marito è venuto a dormire, io ero già al letto, avevo gli occhi socchiusi. Quando si mise sotto le coperte lo abbracciai, e gli feci la fatidica domanda. Ma lui, appunto, tagliò di netto la questione. Io allora mi girai dall’altra parte, ma lui manco si accorse che, sotto sotto, in silenzio, mi veniva da piangere. Fui brava a trattenermi, principalmente per orgoglio.

E adesso?

Non so se l’effettivo amore che provo per mio marito, quel senso di appartenenza, del permettere naturalmente a uno dei due di entrare nel mondo dell’altro, del capirsi senza parlarsi, del litigare non vedendo l’ora di fare la pace… ecco, non so se tutto questo è inesorabilmente finito, oppure…

Oppure?

Oppure se fa parte di quella dinamica che, per forza, prima o poi si presenta a chiedere il conto. Ma, come ho già detto, a dir la verità in questo momento a me non interessa. E lo affermo riconoscendo la drammaticità delle mie parole. A me interessa poco il normale percorso che fa l’abitudine. E non si tratta di un mero capriccio. Non so neanche se Schizzo, il nostro cane, sia arrivato in casa nostra per questo motivo o perché lo voleva Francesco più di noi due. Il fatto, per essere chiari, è che mi sto convincendo che nella mia vita, a mio marito, non riesco più a dargli il giusto posto.

(Diletta si tocca la fede, rigirandola intorno al dito. Rimane un momento silenziosa e con gli occhi bassi sull’anello)

Le pesa la fede, sig.ra Diletta?

(I suoi occhi cominciano a brillare. Poi si percepisce un piccolo singulto. Diletta prende quindi coraggio, e risponde)

A volte mi sembra di non averla neppure.