Minirotaie

Regarding life course and its intersections

treno

Il treno di ritorno da Milano era in ritardo di pochi minuti, ma importava poco. Ci aspettavano a cena i miei genitori, perciò non c’era bisogno di preparare nulla da mangiare. Né, quindi, dovevo fare la spesa, né Maurizio doveva improvvisarsi chef all’ultimo momento sfoggiando la sua solita cucina grassa che, tra l’altro, d’estate non è che sia poi così indicata.

La riunione era andata bene: avevamo visto i nuovi applicativi per la gestione delle fatture: un software efficacissimo, che avrebbe aiutato a monitorare, all’istante, i budget dei vari uffici, se questi sforavano o avevano un accantonamento che potevano ancora utilizzare.

Ma soprattutto, questo benedetto software ci avrebbe permesso di essere più puntuali con i pagamenti. Più che altro per evitare lo stillicidio di telefonate che, di mese in mese, ci vedeva coinvolti – me come responsabile dell’ufficio amministrativo, ma anche i miei due collaboratori – nell’inventare le peggio scuse per tenere buoni i fornitori che aspettavano i pagamenti da più di 30, 45 giorni. Manco fossimo un ministero. Ci occupiamo di sistemi di allarmi e antifurti ed è vero, siamo una multinazionale, eppure… eppure ormai avevamo finito le scuse, anche coi fornitori con cui lavoravamo da pochi mesi.

Semplicemente avevamo imparato a ripetere che «a breve avremmo provveduto al pagamento», e che «intanto avremmo sollecitato la direzione generale per l’autorizzazione».

Un fantastico meccanismo di scaricabarile che nel breve periodo continuava a salvarci.

Nel frattempo, eravamo arrivati a più di metà del nostro viaggio in treno. Il paesaggio era quello della Toscana, dove il telefono a volte aveva zero tacche. Meglio così. Il collega accanto a me (l’altro era rimasto in ufficio a presidiare) si era addormentato. Io mi infilai le cuffie e aprii il canale Youtube di Ligabue sull’Ipad. Lanciai un video, uno qualsiasi, a me le canzoni di Liga piacciono tutte.

Provai poi a chiudere gli occhi, ma non avevo il minimo sonno nonostante (come avete visto) la mia difficoltà di passare notti serene. Preferii comunque serrare le palpebre, più che altro per estraniarmi e chiudermi dentro una campana di vetro virtuale. Il fruscio della velocità del treno non mi disturbava, quasi non riuscivo a sentirlo. In cuffia c’era Cosa vuoi che sia, la canzone è quasi una ballata. Mi feci indietro con il capo, strusciandolo sul poggiatesta del sedile. La cervicale di colpo si riattivò, i muscoli mi davano un leggero fastidio. Poi riaprii gli occhi. Davanti a me, in fondo alla carrozza, nel passaggio che porta a quella successiva, c’era un signore che fumava una sigaretta elettronica mentre leggeva un documento. A un tratto, alzò lo sguardo e incrociò il mio.

Mi sentii per un momento in difficoltà, eppure… ma sì, certo, io quel signore lo conoscevo!

Avrà avuto una cinquantina d’anni, forse qualcosa in meno. Capelli neri, probabilmente tinti, leggermente lunghi. Una specie di Andy Garcia di provincia, ma indubbiamente affascinante.

L’uomo continuò a guardarmi, a me veniva da sorridere. Forse arrossii, di solito appena avverto uno strano calore in viso abbasso lo sguardo. Mi sentii allora un po’ scema e chiusi di nuovo gli occhi.

Ma non potei smettere di pensare: dove cavolo l’avevo già visto?

Al momento di riaprire gli occhi, nel sedile di rimpetto c’era un signore incravattato che lavorava al computer. Accanto a lui una tizia che non aveva mai smesso di parlare al cellulare (per fortuna a bassa voce) da quando eravamo partiti. Nell’altra fila… Ecco! Nell’altra fila c’era un posto vuoto.

Ecco dove avevo visto l’Andy Garcia dei poveri!

Mi venne allora da cercarlo di nuovo. Spostai le iridi a destra, per scoprire se lui era ancora lì.

Ma certo che era ancora lì, e mi stava continuando a fissare!

Stavolta, però, con uno strano sorriso subdolo.

Strinsi le mascelle. Probabilmente feci un’espressione strana, come per dire «Hai visto? Ci siamo beccati un’altra volta!».

Il fatto però è un altro. Il fatto è che non ci sono più abituata, a questi scambi di occhiate, di attese, di inseguimenti e di controlli a distanza, per vedere se sono reciproci. E soprattutto simultanei.

Presi anch’io il cellulare e mi alzai, dirigendomi però dall’altra parte del convoglio. Magari in bagno. Sì, in bagno era meglio, così Andy Garcia non mi avrebbe seguito con la scusa di invitarmi a prendere un caffè. Pochi passi ed entrai nella toilette. Mi guardai allo specchio, mi diedi una pettinata con le mani. Sembravo essere in ordine.

Pensai allora che ci sono. Che ancora, ci sono. Che con il mio tailleur color pesco ero bella. Che ero forte, quasi invincibile. Sentii poi che avevo voglia di tornare a fumare, come quando avevo 23 anni ed ero alla facoltà di economia.

E magari sì, anche di farmi una canna.

Di essere insomma libera.

Trasgressiva.

buco-nero

Quel pomeriggio di qualche giorno dopo tornai a casa prima del solito. Non mi ricordo esattamente come mai. Sapevo solo che avevo una montagna di cose da fare a casa. Principalmente lavatrici e ferro da stiro: colpa di Marisol, che si era data malata il giorno prima. Francesco intanto avrebbe passato il dopo scuola a casa di un amichetto a fare i compiti. Maurizio invece sarebbe andato a prenderlo più tardi.

Era dunque metà pomeriggio pieno, faceva caldo. Ero stanca, ma mentalmente in forze: sapevo che doveva ancora iniziare un pomeriggio di intenso lavoro domestico, e questo stranamente mi motivava. Appena rientrata, mi misi un vestito comodo e le ciabatte da casa ai piedi. Presi la cesta dei panni sporchi dalla nostra cabina armadio, poi quella di nostro figlio. Le appoggiai accanto alla vasca in bagno. Quando mi tirai su, dopo aver lasciato a terra l’ultima, di Francesco, mi massaggiai la schiena. Evidentemente era più pesante del solito, i muscoli non erano ben preparati e la postura non era quella corretta, che ti insegnano quando ti decidi a fare un po’ di ginnastica posturale.

Continuai per un attimo a contemplare la mia schiena con i polpastrelli. E mentre con la mano destra mi massaggiavo i lombari, guardavo in basso. Già, proprio lì, in basso… Misi a fuoco: c’era qualcosa, qualcosa di insolito, sul fondo bianco laccato della vasca, davanti a me.

Deglutii. Provai anche a pronunciare delle sillabe, ma il mio gesto fu più rapido della lingua. Al diavolo la schiena. Mi buttai immediatamente per terra sul bordo della vasca e allungai una mano a prendere ciò che avevo visto. Era lungo, più lungo dei miei. E di colore più chiaro, castano, quasi biondo. Lo tirai su. Poi lo vidi in controluce, davanti al bagliore che arrivava dalla finestra alla mia sinistra.

No, quel capello non apparteneva a questa casa.

Subito dopo, un flash. Di una telefonata da parte di mio marito, un paio d’ore dopo che ero uscita di casa stamattina. Mi informava che sarebbe andato più tardi al lavoro, perché prima aveva un appuntamento da alcuni clienti. In più, voleva sapere come stavo, cosa avrei fatto durante il giorno, che impegni avevo.

«Esco un po’ prima», gli avevo detto.

«Quando?».

«Penso di essere a casa verso le quattro».

Guardai ancora il capello. Il cuore aveva cominciato a battermi forte. Ormai ero certa: anch’io ero incappata nella trappola dell’uomo maledetto. Sì, anche io, proprio come Marika. Allora mi travolse un’immagine, quasi in slow-motion, di questa fantomatica donna dai capelli biondicci mentre si faceva la doccia nella mia vasca, nuda, con lui accanto… Sì proprio con lui accanto, come deve essere in questi casi di amore clandestino.

Continuavo a fissare il capello. Qualcosa dovevo fare. Qualcosa doveva accadere subito!

Già, subito…

Apro gli occhi immediatamente dopo. Mi agito nel letto come se volessi liberarmi da una trappola, il cuore segue il ritmo che aveva il sogno. La bocca è secca, appiccicosa. Dentro c’è ancora il sapore del cibo consumato al banchetto del matrimonio. Forse ho esagerato, forse mi sono lasciata andare più del dovuto, soprattutto con l’antipasto. Mi passo la mano sulla fronte: nonostante l’aria condizionata, la sento bagnata. So però come fare in queste circostanze. Cerco subito di riprendere coscienza di me stessa: mi ricordo, mentalmente, chi e dove sono. Cosa sto facendo. E mi dico che, appunto, era solo un incubo.

Guardo a sinistra: lui è lì. Maurizio respira tranquillo nel sonno. E non c’è nessun’altra, nessun capello.

Lentamente esco dal letto, in cerca d’acqua. Nel corridoio mi avvicino alla stanza di Francesco, la porta è accostata. Dorme anche lui. Arrivo in cucina, riempio un bicchiere, prendo un sorso. Il frigorifero in quel momento comincia a fare il solito ronzio meccanico che generalmente si avverte solo di notte. Ho il respiro ancora un po’ in affanno, provo una certa ansia che sento arrampicarsi su per il corpo. Poi penso a Marika, che stamattina piangeva perché il marito la tradiva, apparentemente alla luce del sole. Non siamo più tornate a trattare l’argomento, ma le ho promesso che, se avesse avuto bisogno, ci saremmo incontrate per farlo. Anche solo per permetterle di sfogarsi.

Rientro nel letto, faccio attenzione a non svegliare mio marito mentre scivolo sotto le lenzuola.

Sono le 2 di notte, guardo il soffitto. È una lastra scura, sembra un buco nero in mezzo all’universo. Mi giro dall’altra parte, chiudo gli occhi. Mi mordo le labbra.

Per un attimo ho vissuto una vita parallela in cui i giochi finalmente si erano risolti.

sposi

Quella mattina tutto era filato liscio come programmato. Sono una brava organizzatrice, lo sapete? Ma per fortuna mio marito è un altrettanto bravo collaboratore. Avevamo entrambi tante cose da fare e poco tempo a disposizione. Il cane da portare fuori, la spesa, la colazione. Lui poi con la macchina da far lavare e io, invece, dal parrucchiere a pettinarmi i capelli. Infine, i vestiti: io il mio l’avevo acquistato in settimana, un’offertona durante i saldi. Maurizio si sarebbe messo il solito gessato grigio scuro. Francesco invece un completino pantalone blu, camicia jeans, cravatta chiara con Topolino disegnato ovunque, in nome della fantasia fanciullesca.

Al matrimonio di un caro amico di mio marito, Luigi, che si sposava in chiesa dopo 5 anni dal rito civile e due bambini di 5 e di 2 anni, eravamo arrivati ovviamente puntuali. E alla celebrazione c’era più gente del previsto.

Noi, al banco, sedevamo vicino a Marika, la moglie di un altro loro amico del gruppo storico del liceo, ad Alberto (appunto, l’altro amico storico), e a loro figlio Gianluca. Ultimamente con Marika e Alberto ci vedevamo sempre meno ma, se devo essere sincera, sarà per il tempo che ormai va troppo veloce e non concede più a niente e nessuno (vi avevo detto che ero una brava organizzatrice? Ecco, allora vi dico che lo sono perché ho imparato a scegliere le priorità), o sarà perché ultimamente non ho molta fantasia di invitare amici, amici di amici e parentele varie… che alla fine la nostra casa è spesso chiusa o non stiamo troppo in giro per incontri mondani.

E la cosa bella è che Maurizio non mi ha mai fatto parola, di questa nostra sonnolenza relazionale, in questi ultimi… beh, ormai saranno 4, 5 mesi. O forse molto di più, e abbiamo semplicemente perso il conto. Ma chissà, magari non interessa nemmeno a lui. E forse non saprei come reagire qualora Maurizio mi dicesse, a sorpresa, qualcosa sancisce la fine della nostra relazione.

«Le cose non vanno, è meglio se ci lasciamo». Poche parole con la faccia seria, e lo sguardo diretto.

La verità è che non riesco effettivamente a immaginare una scena simile, e i relativi e conseguenti stati d’animo.

Ritorniamo però al matrimonio. Eccolo lì, all’estremità del banco, in piedi con il libretto in mano a seguire attentamente il Vangelo letto dal Sacerdote. Maurizio è attento, sembra che non gli sfugga una parola. D’altronde l’amico è anzitutto il suo, io e Francesco siamo venuti solo ad accompagnare.

Poco dopo, all’uscita della chiesa, mi ritrovo di nuovo accanto a Marika, entrambe con un pugno di riso in mano. I nostri figli, con altrettanto riso, si sono invece fatti avanti tra la folla per prendere i primi posti ed essere pronti a inondare i festeggiati. Mio marito invece è defilato sulla destra, insieme ad altri suoi ex compagni di classe e principali protagonisti della festa insieme allo sposo.

A un tratto il marito di Marika si stacca dal gruppo di amici, le fa un cenno e, con il cellulare in mano, si allontana a fare una telefonata. Lei non annuisce ma lo segue per qualche passo, poi torna a guardare davanti. Ha un’espressione pallida, è smarrita. Lo intuisco dai muscoli rigidi intorno alla bocca, visto che indossa degli enormi occhiali da sole.

«Hey» infittisco la voce. «Che succede?».

Lei si risveglia dallo strano imbambolamento dove si era persa per un attimo.

«Niente… Niente di che».

Sospiro. «Ossia? Marika hai una faccia troppo bianca per sembrare viva e presente in questa già noiosissima festa di matrimonio. Non mi freghi».

Marika si gira di nuovo a controllare il marito, per vedere quello che sta facendo. Mi volto anch’io. L’uomo cammina con una mano in tasca e l’altra con il cellulare incollato all’orecchia, mentre chiacchiera apparentemente sereno.

Poi torna a guardarmi. «Alberto mi ha tradito» tuona prendendomi ovviamente in contropiede, con le sue parole. Nessun preambolo, da parte sua, nessuna richiesta di abbraccio e, visto il tema, neanche un pianto isterico.

«Prego?» le dico ancora in preda all’incredulità. In quel momento, ecco uscire gli sposi. Con la coda dell’occhio noto, intorno a noi, delle braccia che si alzano immediatamente come catapulte che lanciano riso. E poi urla, fischi. E ancora riso. Io, invece, rimango con il pugno pieno a fissare Marika che, ugualmente, è pietrificata a osservare la coppia che viene subissata dai chicchi bianchi.

«Mi ha tradito, e sta continuando a farlo» aggiunge subito prima di lanciare anche la sua parte di riso verso chissà dove, con un gesto meccanico. Io, diversamente, non faccio nulla, e rimango a guardarla. Le mani allora cominciano a sudarmi, e i chicchi ad appiccicarsi alle dita. Marika dà un colpo di tosse, tira su con il naso. I muscoli della faccia, di nuovo, tornano duri come corde di una chitarra. Intuisco, butto subito il riso a terra e racimolo un fazzoletto dalla pochette. Lei nel frattempo prende aria e si ricompone in meno di un secondo. Probabilmente non è la prima volta che le è capitato, e sa che deve evitare queste situazioni per lasciarsi andare.

«Grazie…» mi dice comunque, prendendo la salvietta.

«Sei sicura di quello che hai detto?» le domando.

Lei si soffia il naso. «Certo. Me l’ha confessato».

«E che hai deciso di fare?».

«Per adesso? Nulla, Diletta» Marika mi guarda, poi accartoccia il fazzoletto e se lo mette in borsa, prendendo ancora aria con affanno. «Proprio nulla. Anche perché non posso fare, nulla. È solo un gran casino… Un gran casino».

Ketchup Small Letter I

A questo punto devo però precisare. Perché altrimenti tutto prende una deriva che non posso accettare e soprattutto non mi merito.

Se è vero infatti che sono la classica donna italiana, con le classiche fattezze estetiche; e la classica madre di famiglia, con i classici ritmi da madre di famiglia, allora è ugualmente vero che per altri aspetti voglio pensare che mi distinguo. Perché non voglio essere accomunata alla “classica” donna che si lamenta nella società civile di oggi.

Non so se rappresenta un luogo comune o qualcosa di più. Una via d’uscita o una scusa. La realtà però è che questa tipologia di donna esiste davvero. Quella che non aspetta altro che rimarcare ciò che non va, per qualsiasi cosa, pur sapendo di avere spesso ragione. Il caldo, il traffico, gli errori degli altri e le perdite di tempo. In ufficio, per strada, in metro. La donna che pensa che solo lamentandosi, può cambiare qualcosa. Ottenere più attenzione. Meritare maggior credito. Avere l’ultima parola.

Attenzione, però. Qui mi tocca fare un ragionamento un po’ di fino: io vivo in Italia, degli altri paesi (europei e non) ne so poco quindi lungi da me giudicare. Ma sostanzialmente non penso di essere così tanto a rischio di errore se dicessi che, sempre in Italia, se ti lamenti hai forti chances di raggiungere alcuni risultati. Solo se fai le giuste e doverose pressioni, l’aria cambia direzione e all’improvviso arriva a sorreggerti.

Lo si vede al lavoro, ad esempio. Ed è sempre così, immancabilmente, quando (1) non hai appoggi importanti, e li cerchi per pararti il sedere, e/o (2) sai che il tuo interlocutore è un debole. Sì, proprio così: sai che è un debole, e tu a un tratto decidi di fare il passo lungo. Visto che hai trascorso anni nell’angolino a smazzare la confusione generata da altri, decidi di fare tu, stavolta, quella che mette le “i” sotto al puntino. Precisando finalmente che, qualsiasi cosa sia, così proprio non va. Tanto hai sempre fatto tutto tu: sia il “puntino” che… la “i”. Poi, all’improvviso, prendi coraggio e vai: ti lamenti.

Occhio però: non lecchi il culo, no. Ti lamenti.

E lo fai una volta, due volte, poi un’altra volta appresso a quell’altra, con poca distanza di tempo. Poi, ancora, una nuova, ultima lamentela a chiudere la lista. Fin quando, per sfinimento, qualcuno prima o poi ti ascolterà e dovrà farti stare zitta, in qualche modo. Salvo poi magari ricordarselo in futuro, di questo particolare gesto di bontà. Ma questo è un altro discorso. Questo riguarda la distanza, e il saper fare i conti con il proprio destino.

Ora, per tornare a noi, io non so più se la mia vicenda personale, nell’appartamento comprato 10 anni fa insieme a mio marito, è una questione di breve o lungo periodo.

So che voglio sapere, e non lo voglio fare lamentandomi. Ossia, magari finora non mi sono risparmiata (ed ecco perché ho voluto fare questa precisazione) ma almeno mi rendo conto di averlo fatto. E, dopo che voglio sapere, io voglio fare. Anche perché l’interlocutrice della lamentela, in questo caso, sono solo io.

Ed ecco perché ci tenevo a fare questa precisazione.

A voi, invece, chiedo solo di pazientare, di criticare con lo spirito di chi vuole condividere un pensiero, e di attendere per conoscere se c’è una via al cambiamento.

Possibilmente in tempi rapidi.

gelato

Qui il tema si fa un po’ più incandescente. E forse si intuisce già dal titolo dove voglio andare a parare. Ma nonostante il vostro intuito possa averci azzeccato, il senso che voglio dare a quanto sto per dire va da tutt’altra parte.

E la cosa la riassumo così.

Io e Maurizio stiamo insieme da 13 anni. 3 di fidanzamento, 10 di matrimonio.

La coppia, ogni coppia che esista – e più una coppia è longeva, più questo accade –  è fatta di automatismi. Di sistemi che si auto installano come se qualcuno spingesse il pilota automatico. Un po’ come quando fuori è estate: non sai come, ma dopo cena spesso vai a prendere il gelato perché… perché funziona così.

E allora – vado dritta al punto – si fa sesso, nella coppia, perché due persone si piacciono.

E poi – vado sempre dritta al punto – si fa sesso nella coppia perché funziona così.

Ma io in realtà non so più neanche quanto è passato dall’ultima volta. Una settimana? Due? Tre… Boh… Non lo so. Voi lo sapete l’ultima volta che avete mangiato un gelato?

Non c’è una data certa, sebbene nel weekend tutto riesce meglio. Un po’, meglio. Perché comunque c’è Francesco che gironzola per casa. È vero, per fortuna a volte capita che lui vada a dormire da un amichetto di scuola. Prima, però, quando ancora la mia vita, la nostra vita, non era diventata come quella di oggi, era divertente trovare lo spazio in cui io e mio marito ci guadagnavamo la nostra intimità. Nascosti, come due fantasmi, magari in silenzio. Una specie di corsa sul filo del rasoio dove, se venivamo beccati, non avremmo mai saputo come spiegarlo a Francesco. Cosa che in effetti non è mai accaduto. Ed è stato bello così.

Fin quando il nostro sesso clandestino, anche quello, è diventato un automatismo. Una specie di gelato. Puoi cambiare i gusti, puoi cambiare la gelateria, ma sempre di gelato si tratta. E sempre gelato alla fine io mangio. Col risultato conclusivo che gli occhi guardano il soffitto, e il pensiero non segue l’azione presente.

Proprio come ieri sera. Quando mi sono ritrovata a guardare il soffitto. Poi il mio corpo si è mosso insieme al suo. Ho seguito l’automatismo. Tutto mi sembrava liscio quando a un tratto, nella mia mente…

“O cazzo! La lavatrice!”, nella mia mente è esploso il pensiero.

E come farà Marisol, la nostra domestica peruviana, a stirare i panni? Non saranno mai pronti per martedì.

Ma poi l’avevo comprato il detersivo?

Mi sa di no. Accidenti… Il detersivo!

Ma ecco che, proprio in quel momento, tra un pensiero sul detersivo e un altro sulla domestica peruviana, le mie labbra vengono travolte dalle sue. E poi un gemito, quello finale. Infine un abbraccio, mentre Maurizio ancora accenna a qualche colpo di fiato, con il naso che mi struscia l’orecchia.

Pochi attimi. Devo aspettare solo pochi attimi e mi ritrovo da sola a letto. A quel punto la mia concentrazione diventa massima e sì, sono certa: il detersivo non l’avevo comprato.

E sono altrettanto certa. Il problema non è lì. Il problema non è mai lì.

Il problema, in realtà, è quando fare l’amore con tuo marito diventa qualsiasi altra cosa che io possa pensare in quel momento.