Un pensiero per questa terra che, sappiamo bene, rappresenta la natura, la sua forza prorompente. Credo che niente possa essere precluso a ciò che è naturale.
Solo il coraggio e la lungimiranza possono fare qualcosa.
Davanti a me, qualche giorno fa in Alto Adige, si erigeva una catena montuosa di più 3.000 metri. Potente, bella, impassibile verso qualsiasi stagione. Conseguenza di movimenti terreni di migliaia di anni fa.
Poco tempo dopo, a qualche centinaio di chilometri di distanza la terra ha significato distruzione nel centro Italia. Altri movimenti, altre storie da raccontare.
Alla natura, a tutto ciò che è “naturale”, va riconosciuta la sua forza, la sua potenza, volendo il suo fascino. La montagna è lì, non puoi non vederla. Non puoi non immortalarla.
Anche le faglie sotto terra, che devono muoversi perché la natura glielo chiede, stanno lì sotto, esattamente dove sappiamo.
Il coraggio e la lungimiranza non sono per tutti. Ma devono esserlo per chi ha senso di responsabilità verso la vita umana.
C’è qualcosa che non si spiega, nella bellezza del primo pomeriggio di ferie. E’ semplice euforia? Perfezione? Rotondità? Non saprei. Perché dietro a questo giorno si nasconde un non-so-ché di disorientamento dove il fatto, il trucco, è quello di lasciar scorrere.
E’ un clic che, quando arriva, quasi non te ne accorgi.
Da domani, per un po’ di tempo, non c’è più la sveglia alle 7, o giù di lì. Sì lo so, c’è molta gente che si alza anche prima.
“Ma perché non sapete a che ora vado a dormire io!” potrebbe rispondere qualcuno.
Lo so. Ora però non litighiamo. E’ il mio primo pomeriggio di ferie. E mi sembra tutto così disegnato bene, così semplice, così tremendamente misterioso, o semplicemente nuovo. Un po’ spaventa, un po’ esalta. Emozioni e sensazioni controverse, contrastanti, nuove appunto rispetto a quello che era l’ordinarietà, la sveglia alle 7 e il coricarsi a notte avanzata.
Questo è andare in vacanza dopo un anno.
Alle ferie, alla prima ora, non ci si può abituare. Poi, a un tratto, diventano loro l’ordinarietà, si impossessano di te con i loro tentacoli, e per un momento più o meno lungo, ti viene da protrarti. Da dimenticare password, telefonate, appuntamenti. Sei su una specie di tappeto volante che ti porta in alto, e più vai in alto più ti svuoti.
Tempo fa (un bel po’ di tempo fa) ho letto un libricino che ho faticato ad assimilare. Il suo titolo era “Ancora giovani per essere vecchi”. Un testo/dialogo tra un giornalista del Corriere della Sera e un geriatra italiano di fama. E ho impiegato un po’, dicevo, per farmelo mandare giù. Anzi, per dimenticarlo. Forse perché mi aveva messo un po’ d’ansia? Forse addirittura spaventato? Non so.
Sebbene poi, strategicamente, l’avevo riposto nella mia libreria esattamente davanti a dove mi siedo per vedere la tv. E quindi l’occhio ci cascava spesso… altro che dimenticarmi.
Una strada non sempre è un passaggio. Un mezzo di comunicazione, o di arrivo.
Una strada a volte è una scelta. Altre volte è una necessità.
Pur a costo di sembrare ovvio, ma come tutti voi ne ho viste anch’io, di strade. Ma magari l’unico modo per percorrerle veloci, non preoccuparsi se si è in salita, non temere di correre troppo se si è in discesa, è solo quella di non pensare a dove si sta.
Anche a dove si sta andando?
Non so. Se ci chiedessimo il perché di ogni cosa, non faremmo diventare un’abitudine il viaggio.
Ci fermeremmo solo alla preparazione, e mai all’esperienza.
Solo l’esperienza, l’esempio, talvolta l’errore, fa correre.
Mi chiedo se ripetere, e ripetersi, sia sempre la sfida più grande dopo un primo successo. Mi chiedo, allo stesso tempo, se la dimensione significa altro, oltre al mero “farsi vedere”.
Credo infatti che le opinioni siano più forti di tutto ciò che si vuole dimostrare perché, in qualche modo e a prescindere dallo sforzo impiegato, sappiamo che la parola finale è in mano a chi è in grado di fare l’ “esperienza”.
Sono andato a respirare un po’ di aria di una serie TV che mi appassiona da un paio di anni a questa parte, sebbene sia arrivata solo alla seconda edizione. Si tratta di Gomorra. E l’aria che ho respirato non è alle Vele di Scampia, non è nella Napoli buona, ma nella Roma residenziale del quartiere Eur. Quella dove Genny Savastano va a vivere, insomma, per impossessarsi della Capitale.
Anche la serie TV, secondo me, è all’avanguardia. Al punto da causare assuefazione. La guardi, e forse non sai neanche perché.
Ti piace? Non ti piace? Non lo so. So che fa parte di me.
Ho solo un dubbio. Al punto da arrivare a configurarmelo davanti. E se avessi visto – al di là dei contenuti – prima la seconda serie e, poi, la prima? Lo ammetto: in questi nuovi episodi vedo qualche forzatura, qualche scelta che, nella prima serie, non avevo trovato perché tutto, sebbene nella sua crudeltà, trovava una sua logica.
Ora, non so. Forse l’Immortale che parla con un suo uomo di chi ha ammazzato O’Nano, e lo fa con la figlia accanto che fa i disegnini. O forse scene di guerriglia urbana per i guajongielli del Vicolo, che si impossessano nel silenzio più totale (neanche una sirena di una volante) di una nuova piazza, invadendo un palazzo in mezzo a tanti altri. O forse corrieri di droga che girano da soli, senza un accompagnamento (neanche in macchina), senza un’arma e con la macchina accessibile a tutti, senza sicura.
Magari io non vivo lì, e non posso capire. Magari sono dettagli, e come al solito cerco il mio bel pelo nell’uovo.
Ma mi piace riconoscere questi dettagli e, nonostante tutto, lasciare che Gomorra abbia il sopravvento.