Penso che certe gocce siano come sassi che ci arrivano addosso. A volte sembra di stare dentro a un film, quando si corre zuppi d’acqua e senza ombrello, riparandosi con la borsa d’ufficio, per raggiungere un amico che ci aspetta per un aperitivo.
Penso anche ai serpentelli che la pioggia disegna sulle finestrone dei pullman, durante qualche viaggio di ritorno, da posti dove non sai quando ritornerai. E si rimane fissi a guardarli. Sembra che camminino.
Penso infine al rumore di un temporale, di notte, prima di addormentarsi. Quei pochi minuti in cui si legge una rivista leggera, sapendo che il momento migliore è quello che arriva dopo poco. Quando si spegne la luce, e gli occhi si chiudono.
Quando la pioggia non può essere solo un’idea, ma una necessaria presa d’atto.
E’ inutile appellarsi al buon senso, o alla speranza. Già, spesso la speranza costa più fatica, più pensieri, più preoccupazioni dell’accettazione, e rende necessariamente meno rispetto a quello che può essere l’inizio di un cambiamento.
42 chilometri. Poco più di 2 ore per farli. Chissà com’è la vita a correre a 20 chilometri all’ora.
Così almeno ha fatto un kenyota, esordiente a Roma, che ha vinto la 22a Maratona di Roma questa mattina. La Maratona però è anche per altre 14 mila persone che sanno, effettivamente, che sarebbero certamente arrivate almeno un’ora dopo dell’africano. Poco male perché farne 14, di chilometri all’ora, non è che avviene per chiunque voglia mettersi a correre, con buona lena, un piede dopo l’altro.
E allora ecco che basta arrivare, per essere felici. Per ricevere l’applauso degli organizzatori. Per sentirsi forti, aver conquistato una piccola fetta di paradiso.
Si può dire, certo, che l’importante è partecipare. E condividere le emozioni con altri amici, concentrarsi, riscaldarsi in un mattino fresco dei Fori Imperiali romani. Poi, una volta nelle gabbie di partenza, sei lì pronto a scattare, a correre, a tenere il passo.
Perché appunto, quando poi arrivi, ti rendi conto che solo per il fatto che hai tenuto, e che hai resistito, ti meriti di essere contento. Di lasciarti andare.
Perciò ecco una medaglia, un telo coprente, un’arancia, dell’acqua. E poi giù per terra, perché sotto un cielo terso e un Colosseo ripulito, le gambe dicono “basta”.
Ma meritatamente.
Sei arrivato, ora goditi la stanchezza e il riposo del guerriero.
Ho fatto recentemente un corso di formazione sul problem solving. Interessante, il tema, sebbene credo l’esperienza nel risolvere i problemi, al di là del talento, possa essere la risorsa principale da mettere in gioco. E ciò che fa la differenza e, per certi aspetti, mantiene l’autostima.
A parte questo, quando capita di avere a che fare con certi “coach”, durante i corsi si parla un po’ di tutto. E a un tratto abbiamo finito col parlare il tempo. Il tempo che scorre, che è veloce, ma a ritmi diversi.
“Perché quando si è più piccoli il tempo è più lento?”, ci aveva chiesto il coach.
Forse la risposta la sapevamo, ma lui ce la volle dare senza attenderci.
“Perché da piccoli si vive la vita in modo molto meno routinario. E’ la routine, infatti, che accelera i tempi, ma che allo stesso modo limita il valore della nostra esistenza”.
Sto guardando, con tutta la concentrazione possibile, la puntata di oggi di House of Cards. Per chi non lo segue, è la storia di un certo Underwood (Kevin Spacey) e di sua moglie (Robin Wright) che diventa (il primo) presidente degli USA e che, dopo varie vicissitudini, si trova in campagna elettorale per la conferma.
Durante le primarie rimane l’unico a “correre”, in quanto la sua sfidante si ritira.
E ora è testa e testa con il rivale dell’altra corrente politica. Dove tutto si gioca sulla scorrettezza verso l’altro candidato. Molto, in questa puntata, ruota intorno alla privacy, e alla possibilità che i candidati possano conoscere i dati riservati (e i comportamenti) degli elettori.
Questo è quanto. Ma House of Cards adesso può attendere. Continua a leggere